Non so bene perché, ma quando sono diventata mamma una parte di me si è convinta che mio figlio mi avrebbe in qualche modo protetta dalle molestie e dai soprusi. Mi sentivo più sicura, più forte. Credevo che nessun uomo avrebbe osato importunarmi.
Invece, proprio nei primi mesi di maternità, mi sono capitati i due episodi più spiacevoli di molestie di strada. Il primo è successo sul tram: mi sono chinata verso la carrozzina per sistemare la copertina a mio figlio e mi sono sentita toccare sul sedere. Un palpeggiamento chiaro, non poteva essere un contatto casuale. Mi è parso che durasse tantissimo. Dopo i primi istanti di shock e incredulità mi sono guardata intorno e ho visto vicino a me un signore anziano, basso, che mi dava le spalle. Ho avuto la sensazione che fosse lui. Mi ha fatto schifo, ribrezzo, ho guardato le sue mani: le unghie erano lunghe e sporche. Questo dettaglio ha accresciuto il senso di disgusto che provavo.
Vicino a me c’erano anche mia suocera e mia cognata, che avevo incontrato per caso sul tram. Forse anche per via della loro presenza non ho detto niente, mi sono vergognata. Razionalmente sapevo che non avevo fatto nulla di male, eppure una parte di me si rimproverava l’imprudenza di essermi chinata sulla carrozzina. Lo ritengo assurdo, ma quel pensiero è arrivato. Sono rimasta zitta. Poi, una volta tornata a casa, ne ho parlato con mio marito, e ho disinfettato e lavato i jeans che indossavo.
Il secondo episodio è successo una domenica mattina mentre andavo in piscina a piedi. Avevo appena ripreso a nuotare dopo il parto, mio figlio era a casa con il papà e ricordo che stavo pensando all’allattamento, al tempo che avevo per andare e tornare senza che il bimbo ne risentisse. Mentre attraversavo l’unico incrocio che mi separava dalla piscina, un’auto si è accostata e l’uomo al volante ha abbassato il finestrino. Subito ho pensato che potesse aver bisogno di un’indicazione per cui mi sono avvicinata ma l’uomo mi ha chiesto: “Se ti do 50 euro, mi fai fare qualcosa?”
Sono rimasta basita e incredula. Non ho capito subito il significato di quella frase, ma dopo poco ho iniziato ad urlare: “Ma che cosa…? Ma come si permette?”. L’uomo ha accelerato e se n’è andato via. Sono rimasta per un po’ ferma, impietrita, continuando a imprecare contro di lui e poi ho iniziato a piangere, di rabbia e umiliazione. Infine, ho deciso di andare lo stesso in piscina, anche se non ne avevo più nessuna voglia. Ricordo di aver osservato a lungo il vestito che indossavo: un vestito estivo a righe bianche e azzurre, di cotone, lungo fino alle caviglie. Nella mia mente si affollavano pensieri contraddittori: “Non è attillato, dai! Eh, segna un po’ il sedere però... Ma che c’entra? Se anche fosse attillato, mica sarebbe colpa mia! Sì, beh, certo, però… forse si poteva evitare… Ma che razza di maschilista che sono!”.
Quel vestito, in città, non l’ho più messo. Lo uso soltanto al mare.
“Com’eri vestita quando è successo?”
“Sei tu che l’hai provocato piegandoti in maniera provocante, potevi rimboccare la copertina in altro modo…”
Ma anche:
“Avevi bevuto?”
“Dovresti sentirti lusingata se un uomo ti trova attraente”
“Chissà cosa ha fatto o con chi è stata per arrivare in quella posizione”
Potrei andare avanti all’infinto: queste frasi le abbiamo sentite tutti. Alle volte, le abbiamo addirittura pensate noi stessi.
Così esordisce Valentina Nichele, avvocata di diritto di famiglia e parte del team legale di DONNEXSTRADA, a cui abbiamo chiesto il parere professionale rispetto agli eventi del racconto della newsletter di questo mese per capire quali sono i mezzi legali esistenti ad oggi in Italia per tutelarsi dalle molestie di strada.
In queste parole rientrano due tematiche profondamente legate tra loro: la cultura patriarcale di cui è intriso il tessuto socio-culturale in cui viviamo e la vittimizzazione secondaria.
La cultura patriarcale è una forma di pensiero che considera le donne una proprietà dell’uomo: dove l’uno è una persona forte, dominante, intraprendente mentre l’altra è persona vulnerabile, emotiva, remissiva.
La vittimizzazione secondaria invece è la colpevolizzazione della vittima, la quale di fatto subisce una seconda aggressione che la rende di nuovo vittima.
In questo contesto non è più il colpevole ad essere biasimato ma chi ha subito la violenza, con conseguente de-responsabilizzazione dell’aggressore e (paradossale) responsabilizzazione della vittima che deve trovare il modo di risolvere la situazione, conviverci ed evitarla (oramai) in futuro; per esempio, cambiando abbigliamento.
Dal punto di vista psicologico la vittimizzazione secondaria provoca un secondo trauma nella vittima ad opera questa volta della società o delle istituzioni: chi ha subito un’aggressione si trova a dover rivivere la sofferenza di quell’esatto momento, sentendo tutto il giudizio e il peso della colpa per aver subito la violenza.
Sul piano giuridico, la vittimizzazione secondaria, è entrata nel patrimonio legislativo degli operatori del diritto solo recentemente, in particolare dai primi anni 2000, come tutte le tematiche relative alla violenza di genere. Per farne un breve riassunto possiamo citare:
la Raccomandazione n. 8 del 2006 del Consiglio d’Europa1 secondo la quale «vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e altri individui alla vittima»;
la Convenzione di Istanbul del 20112, entrata in vigore dal 2014 che obbliga gli Stati che l’hanno ratificata ad adottare le misure necessarie per proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza disponendo tra le altre cose, l’obbligo di adottare misure «basate su una comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica e si concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima»;
la Direttiva Europea 2012/29/UE3 raccomanda come le vittime di reato debbano essere protette dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall’intimidazione e dalle ritorsioni, dovrebbero ricevere adeguata assistenza per facilitarne il recupero e dovrebbe essere garantito loro un adeguato accesso alla giustizia.
Previsioni, tutte, ampiamente disattese nella quotidianità. Gli episodi con i quali si è aperta questa newsletter ne sono la lapalissiana evidenza.
IL TRAM
Non c’è dubbio che quella subita sia una vera e propria violenza sessuale. Dobbiamo infatti ricordarci che il reato previsto dall’art. 609 bis del Codice penale non comprende solo l’atto sessuale in sé, ma ogni forma di palpeggiamento, sfioramento o contatto corporeo pur fugace, pur sopra i vestiti idoneo a soddisfare un impulso sessuale del reo. Questo tipo di reato non si manifesta solo nel costringere qualcuno a subire atti sessuali, di qualsiasi tipo, ma anche nell’indurre qualcuno a compiere o subire quegli atti traendo in inganno la vittima o abusando delle considerazioni di inferiorità psichica o fisica della persona al momento del fatto.
La presenza del figlio piccolo e del nucleo familiare possono certo essere considerati come dei fattori in grado di condizionare o paralizzare una persona, sfruttando uno stato di intimidazione psicologica idoneo a provocare la costrizione della vittima a subire quell’atto in silenzio e poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso.
LA PROPOSTA INDECENTE
Prima di dare un nome a ciò che la donna ha vissuto è bene inquadrare cosa non è.
Non è favoreggiamento della prostituzione, perché si è trattata della “sola” proposta di denaro in cambio di prestazione sessuale senza che questa fosse seguita da altri atti idonei all’avvio della prostituzione. Non è molestia, perché per integrare questo reato deve esserci petulanza ossia una continua ed inopportuna intromissione nella vita dell’altro.
L’episodio si può quindi inquadrare solo all’interno del pappagallismo (cat-calling), il quale non costituisce reato ma evidenzia la disparità di ruoli uomo-donna inserendoli in un rapporto di potere dove l’uomo, dominante, può permettersi, per il solo “gusto” di farlo, di umiliare la donna. Le persone a cui viene fatto cat-calling non scelgono di ricevere le attenzioni altrui ma le subiscono e basta. Le conseguenze psicologiche di quella micro-aggressione sono molto simili a quelle delle vittime di violenza sessuale e sono molto ben descritte dalle sensazioni riportate nel racconto. Si viene a radicare un senso di insicurezza e la convinzione di non essere libere di muoversi nello spazio pubblico, di sentirsi dei meri oggetti sessuali, di vivere di sensi di colpa.
Ma in definitiva come si possono combattere questi comportamenti?
Anzitutto facendo formazione agli operatori che vengono a contatto con le vittime di violenza e attraverso la prevenzione, sin da giovanissimi. È anche fondamentale sensibilizzare i cittadini su queste tematiche perché anche solo parlarne apertamente negli ultimi anni ha avuto quale grandissimo risultato quello di considerare questi comportamenti, fortemente radicati nella cultura patriarcale, non più accettabili. Si tratta pur sempre di un piccolo, timido passo che, tuttavia, è alla portata di tutti.
Se domani facessimo tutte e tutti questo timido passo, lo spazio pubblico sarà veramente libero, accessibile e sicuro.
https://www.giustiziariparativaunipa.it/wp-content/uploads/2023/12/CM_Rec20232E.pdf
https://documenti.camera.it/leg17/dossier/pdf/ac0173.pdf
https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/sgep_tavolo18_allegato3.pdf